Concorso letterario 2025 "STORIE DA URLO"
CONCORSO LETTERARIO 2025
STORIE DA URLO
Traccia: “L’incontro”
CLASSI PRIME
1° PREMIO
Linda Borney
Ero io, una delle ragazze di una delle scuole più grandi di New York, negli Stati Uniti. Avevo dodici anni e andavo in prima media, mi ero trasferita qui con la mia famiglia, che aveva trovato un lavoro. Io avrei preferito restare dove avevo sempre abitato prima di venire qui, in una piccola casa di montagna isolata dalla città, al nord della Francia. Ora che sono in America un posto lontano da tutto ciò che amavo, la natura che mi aveva sempre fatto compagnia, gli animali con cui avevo sempre giocato divertendomi, le piante con cui mi ero sempre confidata. Invece adesso ero qui tra case e cemento, in in un luogo del tutto sconosciuto per me. La casa in cui ci eravamo trasferiti era enorme, così tanto che ci si sarebbe potuti perdere facilmente. Io non ero per niente contenta, tutti invece la adoravano, ma io rimanevo dell' idea che le case semplici, in legno, e piccoline fossero migliori, come quella che avevamo prima.
Tutti questi cambiamenti non mi avevano aiutata, mi trovavo a disagio. Sembrava stesse andando tutto storto che non ci fosse niente di bello o felice. Molte volte mi era capitato di avere nostalgia di casa, " non potevamo restare lì, era tutto così bello" pensavo. Più i giorni passavano, più diventavo triste. Molte volte mia mamma mi aveva provato a consolare, ma senza risultati.
Un giorno, mentre andavo a scuola, pensai come fosse possibile che non ci fosse uno spazio, anche uno piccolo, con un po' di verde, di vita. Decisi di abbandonare il pensiero della scuola, ma di seguire l'istinto e provare a cercare ciò che mi mancava da tanto. Più tardi giunsi in una piccola via, con in fondo una vero e proprio parco pieno di colori e verde.
Non ci potevo credere ero finalmente arrivata nel luogo che sognavo da giorni! Con una grande e forte emozione, corsi fino a toccare un grande albero. Senza pensarci due volte mi tolsi le scarpe: ero finalmente a contatto con i miei migliori amici! Gli alberi mi avevano sempre dato una sensazione di gioia, di felicità. Senza di loro mi sentivo sempre triste, pensavo quasi che una parte delle mie emozioni serene, che mi mancavano senza di loro. Era stato un vero incontro, il più felice della mia vita, anche se un po' strano ma speciale. Mi sentivo di nuovo me stessa. Fu allora che iniziai a parlare a tutti loro, tutti gli alberi, dei miei sentimenti che avevo provato stando insieme e come ero stata senza la loro compagnia. "C'era qualcosa di magico" pensai, quell' incontro con gli alberi era stato come una fioritura di gioia e felicità.
In particolare c' era una piantina che mi ascoltava con molta attenzione, allora decisi di farci amicizia. Lei era un po' la mia anima gemella, anche lei era stata trapiantata nel parco. Prima invece viveva in una radura naturale e piena di amici. Doveva essere molto bello le dissi. Da subito, appena avevamo iniziato a parlare, mi rispecchiai subito in lei. Avevamo delle storie molto simili, era vero, però mi sentivo bene con lei come quando abitavo in Francia. Parlammo e parlammo per ore, fino a quando mi venne una bellissima idea. "Senti piantina, noi siamo diventate tanto amiche e a me piacerebbe restare sempre con te. Che ne diresti se ti portassi a casa mia per vivere insieme?" Lei mi guardo con occhi stupiti, che sembravano già sognare una nuova vita. Io ero felice della sua reazione, ma quando poi mi disse che le sarebbe piaciuto tanto venire ad abitare insieme a me, mi sentii il cuore esplodere di gioia. Una gioia che non avevo mai provato prima, ero così contenta che mi venne da abbracciarla con tutte le mie forze. Mi trattenni, anche perché altrimenti non sarebbe finita bene. Con quasi le lacrime agli occhi per la felicità, la presi togliendola dalle terra e mettendola in una fazzolettino.
La portai a casa e la misi in un vasetto, il più bello che avevo, la travasai e la misi sul mio comodino. Era la prima volta che ero entrata in camera solamente con pensieri belli, fui veramente di nuovo felice. Anche la piantina cambiò, anche lei era serena e spensierata.
Vivemmo tutta la vita insieme regalandoci serenità a vicenda. Questo magico incontro mi aveva insegnato di non arrendermi mai, neanche dei momenti più bui, perché si trova sempre un lato positivo. Devi solo essere te stesso senza avere paura del giudizio degli altri, solo allora sarai veramente felice. Se ci crederai riuscirai a sorpassare qualsiasi ostacolo.
2° PREMIO
Alizée Fregnani
C'era una volta, in un tempo lontano, una ragazza di nome Aria che viveva con i suoi genitori in una piccola casa nel bosco. Passava molto tempo con loro: giocavano, passeggiavano, leggevano. Ogni sera prima di andare a dormire il padre raccontava ad Aria delle storie su un luogo meraviglioso, dove la vita era semplice e felice: Zamaia. All'ottavo compleanno di Aria nella regione scoppiò una terribile carestia. Una mattina i suoi genitori andarono alla ricerca di cibo e non tornarono più. Da quel giorno Aria imparò a vivere sola. Più passavano gli anni, più sentiva il bisogno di cercare Zamaia.
Allora quando compì 16 anni, Aria decise di lasciare la sua casetta nel bosco e di cominciare una nuova vita alla ricerca di Zamaia.
Il primo giorno di viaggio camminò per ore e ore, era stanca quindi decise di cercare un posto dove fermarsi. In seguito ad altre ore di viaggio vide un paesino in lontananza. Anche se all'apparenza il paesino sembrava terribile, Aria era molto affamata e iniziò a correre. Presto arrivò davanti ad un grande arco che delimitava il villaggio. Vedendolo da vicino, però, capì che era una città enorme e non un orribile villaggetto abbandonato. Era arrivata a Mada la città più importante della sua regione. Un po' esitante varcò le porte dell'imponente paese.
All'improvviso una mandria di pecore le passò davanti, tre o quattro carri rischiarono di investirla, alcuni mercanti la incitarono a comprare le loro merci. Molto spaventata, cercò un posto tranquillo e qualcosa da mangiare. Dopo minuti di ricerca venne spinta dentro un piccolo edificio da un brigante in fuga.
L'interno era illuminato dalla luce fioca di una lampada ad olio ed era decorato da tappeti che ricoprivano tutte le pareti. Lì si trovava un anziano signore seduto su un cuscinetto circolare. Il vecchio stava meditando ad occhi chiusi e sembrava non essersi accorto dell'arrivo di Aria. Pronunciava parole insensate e di tanto in tanto sul suo volto apparivano espressioni bizzarre. Dopo pochi secondi di silenzio, però, iniziò a parlare: "Piacere sono Argelido e sono un chiromante". Senza lasciar aprir bocca ad Aria continuò: "Intravedo nel tuo futuro qualcosa di intrigante; all'inizio sembrerà un incontro fastidioso, ma col passare del tempo imparerai ad apprezzarlo." Aria spaventata corse via e ritorno nell'ambiente brusco e pericoloso che quasi aveva dimenticato. Camminò impaurita cercando di uscire dalla città. Cercò di chiedere informazioni alla gente , ma invano. Si era persa.
Continuò a vagare fino a quando non si scontrò con un piccolo ragazzino. Aria si scusò in fretta e continuò la sua ricerca. Camminando si accorse che il ragazzino la stava seguendo quindi si fermò in un vicolo più tranquillo sperando di riuscire a parlargli. Quando anche il ragazzino si fermò nel vicolo Aria chiese bruscamente: "Chi sei e perché mi segui?" il bambino rispose: "Salve, sono Arbu e cerco una compagna di viaggio e una nuova avventura da vivere. Ho capito che non riesci ad ud uscire e che hai molta fame quindi volevo aiutarti!". Aria si riprese, capì che era stata molto brusca. In fondo non sapeva come uscire, quindi accettò l'aiuto del bambino in cambio di diventare la sua compagna di viaggio. Arbu, felice ed eccitato per la nuova avventura, le diede della frutta e la porto all'entrata della città. Anche se inizialmente Arbu sembrò ad Aria solo un piccolo bambinetto fastidioso, in molte occasioni fu un'importante risorsa. Così da quel giorno Arbu e Aria iniziarono il loro lungo viaggio alla ricerca di Zamaia.
3° PREMIO
Brunet Héléne
Sono Marco, un ragazzo come tutti gli altri, ho la mamma e il papà e nessun altro.
Vivo a New York, mi sono trasferito da piccolo, una volta vivevo in Italia, in una campagna con anche i miei nonni: Rosario e Marina.
Non mi ricordo bene ma so che stavo molto bene, niente macchine, ne cemento solo prati e una grande casetta rosa. Invece adesso vivo in un bruttissimo palazzo a 9 piani, tutto grigio, uguale agli altri, che non dà nessuna felicità nell'aria. Vado a scuola in un altro palazzo tutto grigio dove non ho nessun amico. Anzi se possono mi bullizzano anche.
Mi sento un po' triste, i miei genitori lavorano e tante volte sono chiuso in casa da solo.
Oggi è un giorno come tutti gli altri, chiuso in casa, tutto solo, a leggere un libro o a guardare la TV.
Ma avevo uno strano presentimento, oggi era tutto stranamente più silenzioso del solito, allora mi sdraiai un attimo per terra, per ascoltare meglio i suoni fuori, visto che non ho nulla e nessuno con cui giocare, sento gli uccellini cantare fuori, che bello!
Ma ad un certo punto sento una specie di vibrazione, non è quella del telefono, ne di nessun altro apparecchio elettronico.
Vado a vedere per la casa e ad un certo punto trovo un libro di geografia che emana una strana luce, molto intensa.
Lo prendo in mano e inizio a sfogliarlo. Ci sono delle strane mappe, il regno Urgia, non l'ho mai sentito.
Ad un certo punto mi addormento, dormo non so per quanto.
Mi risveglio in un posto strano, con gli alberi che parlano e camminano, con dei funghi giganteschi, ma la cosa più strana è che tutte le persone volano.
Sì, non è uno scherzo tutte volano!
Io provo a chiedere ad uno strano passante anche esso con le ali.
Gli chiedo dove siamo e come mai tutti hanno le ali, lui risponde: "Ragazzino ma da dove vieni? Qua siamo in Urgia, in Via magia.". Urgia, il posto della strana mappa.
Io rispondo: " Io sono Marco e vengo da New York. Mi riporteresti a casa? " e il signore: "Io non posso non so nemmeno che cos'è New York! Ma ti porto dalla regina, lei saprà sicuramente come aiutarti!". Lo strano signore mi porta in un palazzo fluttuante, con una torre altissima che non si vede dove finisce. La regina mi spiega che per uscire dal suo regno devo trovare qualcuno o qualcosa senno non uscirò mai. Cosi mi da una mappa simile a quella del libro dove ci dono dei posti magici. Io mi avventuro e vado subito a via del borgo ululante. Ci sono dei signori con il corpo da lupo che camminano su due zampe e che bevono della birra. Io chiedo a uno di loro che subito mi prende e mi lega a un palo insieme ad un povero cagnolino, sembrerebbe che ha uno o due anni, è piccolo incrocio, tutto bianco, e un po' spelacchiato. Iniziano a discutere e io capisco subito che ci volevano inghiottire e stavano litigando per chi ci doveva mangiare. Nel frattempo io mi dimeno e riesco a liberarmi e libero anche il povero cagnolino. Io mi incammino di nuovo verso il palazzo e penso ben di ridarlo alla regina. Quando glielo porgo lei fa un sorrisetto e mi dice: "No tienilo tu forse è la strada per tornare indietro. Tieni queste ti aiuteranno." Mi porse due ali, un paio più grande e l'altro più piccolo. Sono al settimo cielo capisco che il cane è la chiave per tornare indietro e le ali sono la porta. Indosso le ali e le metto anche a Rex (il cagnolino) e voliamo e voliamo per tutta Urgia.
Mi risveglio davanti al libro, sospiro, era tutto un sogno: non c'è Rex, ne le ali, ne più Urgia, di nuovo nel mio noioso palazzo.
Mi sdraio per terra quando sento i miei genitori arrivare: "Abbiamo una sorpresa per te!" mi alzo di scatto e vedo in mano a mia mamma una scatola di cartone con dentro:" Rex!" grido. Mia mamma dice "Che bello gli hai trovato un nome! Pensavamo di farti un amico ma non è l'unica sorpresa..." tira fuori dei biglietti aereo per l'Italia, è il giorno più bello della mia vita, abbraccio i miei genitori. L'indomani traslochiamo, mettiamo tutte le nostre cose su un camion. Il viaggio aereo è lunghissimo, ma per fortuna ho il sonno pesante. Arriviamo nella nostra casa di campagna, c'è tutto quello che mi ricordavo e non solo: il grande prato, le mucche, l'orto, i nonni Rosario e Marina, la grande casetta rosa e Rex. Sono il bambino più fortunato del mondo sono ritornato nella mia vecchia scuola e i miei vecchi compagni mi hanno accolto von una grande festa. C'è ancora una cosa che mi turba, era un sogno quello di Urgia? Chissà! Questo ve lo lascio pensare a voi, cari lettori.
Fine
CLASSI SECONDE
1° PREMIO
Rose Uroni
Era una mattina come tutte le altre quando uscii di casa per buttare l'immondizia. Mi ero svegliata con tranquillità, sul mio letto dormiva ancora il mio gatto: Pompon. Cercai di alzarmi senza fare rumore, ma quando fui sulla soglia della mia camera lui si strofinava già sulle mie gambe aspettando la colazione.
Quando arrivai in cucina feci colazione e quando finii mi diressi verso il piccolo armadietto in cui tenevo tutto il cibo del micio, poi glielo diedi, ed egli lo mangiò con molta voglia.
Dopo essermi vestita presi il sacco dell'immondizia e aprii la porta di casa. Uscendo sentii arrivarmi in faccia la freschezza di un mattino di primavera. La sera prima vi era stata una forte tempesta e infatti si vedeva che la natura aveva sofferto molto: gli alberi erano caduti un po' ovunque e l'odore del cemento ancora umido mi ricordava la città.
Io e Pompon ci eravamo trasferiti da poco in campagna con la voglia di fuggire dal traffico e dall'inquinamento. Il nostro villaggio era perduto tra campi e boschi, quindi non mi ero ancora abituata.
Mentre marciavo verso i bidoni scorsi qualcosa: una grossa sagoma dietro ad un albero. Quando lo osservai meglio, vidi che aveva due imponenti corna piantate nel cranio. Quando cercai di avvicinarmi lui era già scappato. Volevo seguirlo. Rientrai di corsa in casa, afferrai il mio zainetto da montagna in cui c'era l'occorrente per una camminata e ripartii. Mentre correvo nella stessa direzione in cui era partito l'animale misterioso, mi voltai verso casa e vidi Pompon che mi osservava con un'aria interrogativa sul pianerottolo dell'entrata.
Poi, dopo circa dieci minuti di corsa sfrenata mi dovetti fermare per riprendere il fiato.
Guardandomi intorno mi resi conto di essere in una parte del bosco in cui non avevo mai camminato. A quel punto non sapevo proprio dove andare. Mi ero persa.
Camminai per almeno due ore senza trovare riferimenti delle mie vecchie passeggiate, poi arrivai in un posto ancora nuovo.
Mi ritrovai in una prateria selvaggia. Questa non era ne coltivata ne utilizzata per il bestiame. Era vuota. L'unica cosa di cui era piena erano mille fiori primaverili di tutti i tipi. Il loro odore mi ricordava il profumo del miele che avevo ricevuto in omaggio dal villaggio il giorno del mio arrivo. Vedere tutta questa bellezza mi diede voglia di cominciare a correre e a rotolare.
Saltellando nell'erba alta mi sembrava di essere un cerbiatto quando... Un cerbiatto! No meglio, un cervo!
Vedendolo mi persi la concentrazione e caddi. Ruzzolai per qualche metro e ancora un po' intontita sollevai gli occhi. A qualche passo da me si trovava il possente animale. Era magnifico.
Lo osservai ancora per qualche secondo poi provai ad alzarmi. Ma feci troppo rumore. Mi vide. Ma non scappò. Rimase anche lui ad scrutarmi incuriosito. Guardandolo meglio da sopra l'erba mi resi contro che era spettacolare.
Le sue corna erano bianco perla, il suo manto sembrava di seta e i suoi occhi erano, erano stupendi. Ricordavano la prateria, ma con la luce del tramonto che ci rifletteva sopra.
Ci misi un po' di più a capire che un animale del genere in quella zona non doveva esserci. Ma quando lo capii lui era già sparito.
La mattina dopo decisi di andare dalla forestale per chiedere informazioni sul mio avvistamento. Avviandomi verso il centro del villaggio mi chiesi se gli agenti mi avrebbero creduto.
In centrale raccontai il mio incontro ad una donna, robusta ma gentile, che mi disse:
-Cara, il tuo è il primo avvistamento di un cervo in queste zone quindi lo credo impossibile, ma proverò a mettere comunque delle telecamere nella zona per sicurezza.
-La ringrazio signora.
Passarono tre settimane, ma nessuno lo vide. Le videocamere non avevano ripreso altro che caprioli, volpi e cinghiali:
-Mia cara non so dove tu lo hai visto questo cervo
- Ma signora io le giuro solennemente di aver incontrato un cervo nel bosco; in una bellissima prateria fiorita
-Io e i miei colleghi invece ti giuriamo di non aver mai visto questo animale nei paraggi.
Quando tornai a casa, mi sdraiai sul divano perplessa. Non capivo. Era sparito nel nulla. Forse lo avevo confuso con un capriolo troppo cresciuto. Ma dove poteva essere andato? Io andavo quasi ogni giorno dalla forestale, ma nessuno ne aveva notizie. Questa cosa mi metteva a disagio anche perché ora la guardia parco del villaggio credeva che io fossi un pazza.
Ma se fosse stato tutto un sogno? Non lo scoprirò mai…
2°PREMIO
Ferrandoz Gianmarco
3 maggio; Monterey, California
Erano le 4:00 del mattino quando Bart Spencer, pescatore ventenne, uscì per la sua battuta di pesca notturna, alle prime ore del mattino. Il sole non era ancora sorto, ma la luna sembrava che non ci fosse, forse per via della fitta nebbia che oscurava ancor di più il cielo. Ciò non impediva comunque a Bart la sua battuta di pesca, visto che vivendo in California ci aveva ormai fatto l'abitudine. Bart era un uomo sulla ventina d'anni. Viveva a Santa Cruz, in un piccolo appartamento. Proveniva da genitori nativi americani, cresciuti nelle riserve indiane dell'Arizona, ma poi trasferitosi in città. La sua vita non era mai stata facile. Era il terzogenito, e insieme alle sue due sorelle più grandi ha sempre dovuto badare ai suoi quattro fratellini. Suo padre faceva il pescatore, e aveva deciso di tramandare la sua passione al figlio. Anche se Bart lo faceva solo per guadagnare qualche soldino al mercato, per poi pagare l'affitto del suo appartamento e proseguire i suoi studi universitari. Ambiva a diventare dentista, e infatti studiava medicina. Portava dei capelli lunghi fino all'altezza delle spalle, scuri come l'ossidiana e ondulati come le onde del mare. Aveva un viso giovane, dal naso etnico nativo americano e occhi scuri. Le sue sopracciglia erano folte, cosa che non si può dire dei suoi baffi e della barba, quasi del tutto rasati.
Aveva ereditato dal padre una piccola imbarcazione, al bordo della quale andava appunto a pescare. Quando prese il largo gettò finalmente le sue reti, in attesa che strabordassero di sardine. Era costretto a pescare al largo, visto che le coste erano popolate da foreste di kelp, un' alga marina di 4 metri, dimora di ricci di mare, leoni marini, lontre di mare e infinite varietà di pesci. Esse, oltre al rischio che vi si impigliassero le reti, facevano parte del Parco Nazionale del Monterey. Infatti la zona disseminata da cartelli che recitavano : "RISERVA MARINA", oppure : "DIVIETO DI PESCA". Insomma, per uscire dalla riserva doveva fare un po' di strada…
Si sono fatte le 5:35, il sole sarebbe dovuto iniziare a sorgere, illuminando l'Oceano con i suoi primi spiragli di luce. Ma la nebbia impediva anche questo. Bart si faceva comunque luce grazie al suo frontalino. Stava ritirando le reti, quando ad un tratto un rumore agghiacciante proveniente dagli abissi sovrastò quello dolce provocato dalle leggere ondine dell'Oceano. Bart sobbalzò improvvisamente. Restò immobile per qualche secondo, in attesa che il rumore si replicasse, ma restò solo quello delle onde. Bart deglutì rumorosamente. Restò un attimo a riflettere su cosa fosse, ma non gli venne in mente niente. Decise di riprendere la sua battuta di pesca. Quando fu il momento di tornare in porto, rimise in moto la sua imbarcazione, ma nella direzione opposta. Ma poco dopo ebbe la bizzarra impressione di essere seguito. In effetti si sentiva un rumore di sottofondo, come un potente fruscio provocato dall'acqua. Quando si voltava per vedere che cosa fosse, esso cessava. "Sarà che sto improvvisamente impazzendo…" penso tra se e se, e si mise a ridacchiare. Ogni tanto dava un occhio anche sull'Oceano, per verificare se il pedinatore fosse sottacqua. Ad un tratto si fermò il motore della barca. Bart si sporse per aggiustarlo e vedere cosa fosse. Ma quando si prolungò per vedere il guasto scorse un ombra gigantesca sotto la barca. Balzò all'indietro di colpo, spaventato dall'imponenza di quella figura. Provò a dare due colpi veloci al motore per ripartire subito. Ci riuscì, ma ormai era troppo tardi. L'enorme figura, ormai che la copertura era saltata, decise di mostrarsi finalmente al ragazzo, ma solo in parte. Dico questo perché inizialmente decise di mostrare solo la sua pinna dorsale. Già, la pinna dorsale. La pinna dorsale di uno squalo. Essa era marchiata da numerosi "segni di guerra", come tagli o cicatrici rimarginate. Possedeva un colore grigiastro spento. Aveva il diametro di un metro e mezzo, e l'altezza di due. Questo per farsi un immagine di quanto fosse grande la sua stazza. Bart prese il cellulare in fretta e furia, dalla tasca dei pantaloncini. Provò a chiamare ripetutamente l'119, per cercare soccorsi. Ma di campo ce n'era ben poco… "Mi chiamo Bart Spencer, mi trovo...pronto?...mi sentite…pronto?..." la linea cessò di colpo. Intanto lo squalo, troppo veloce per lui, gli era alle calcagna, grazie al suo andamento impetuoso. Decise allora di giocare d'astuzia : arrestò di colpo il gommone. Lo squalo lo infilzò, grazie ai suoi denti grandi come fette d'anguria, affilati come pugnali, e bianchi come l'avorio. Si vide passare la vita davanti, vedendo la sua bocca enorme davanti ai suoi occhi, ma si armò si coraggio. Cercò di evitare le sue possenti mascelle, e quando si chiusero, saltò giù dall'imbarcazione. Aveva evitato lo squalo! Ma si mise a festeggiare troppo in fretta. Bart pensava che il colosso si sarebbe ritirato, battuto, e schifato dall'imbarcazione ingoiata. Ma si sbagliava. Mentre cercava di tornare a riva lo squalo saltò in aria. Era grosso quanto un TIR...Si rituffò in acqua sollevando un'onda di tre metri, che travolse il nostro protagonista. Ingoiò qualche litro d'acqua, ma riuscì comunque a riemergere. Giusto per vedere l'andamento impetuoso dello squalo, con la sua pinna dorsale alla velocità di un siluro, che spezzava l'acqua. Il mostro riemerse, mettendo in vista i suoi tantissimi denti di avorio, pronti a lacerare la carne, e la sua bocca, assetata di sangue. Prima dell'impatto con lo squalo, Bart però pensò : "questo è senz'ombra di dubbio l'incontro peggiore che io abbia mai fatto…". E chiuse gli occhi, per rendere il tutto meno doloroso.
3°PREMIO
Fontana Giselle
Quella mattinata d'agosto era calda e soleggiata come tutte le altre. Come d'abitudine uscii di casa con mia sorella per passare un po' di tempo assieme. Lei decise di andare nel bosco, alla nostra casetta sull'albero. La camminata che facemmo per raggiungere l'inizio del bosco durò più del previsto. Nonostante tutto, quando fummo davanti all'ingresso della piccola foresta eravamo soddisfatte del nostro sforzo.
Dopo aver percorso circa un chilometro arrivammo alla nostra meta.
Era proprio come me la ricordavo. Quella splendida casetta che costruimmo io e mio padre quattro anni prima, senza sapere che sarebbe diventata un luogo a dir poco magico.
Melissa, la mia sorellina, salì con un balzo sull'altalena accanto alla costruzione in legno. Andai dietro di lei ed iniziai a darle delle spintarelle per farla andare più veloce.
Ad un certo punto sentimmo lo scricchiolio di alcuni ramoscelli esattamente dietro di noi. Sembrava che qualcuno ci stesse osservando e si stesse avvicinando sempre più a noi, ma quando mi girai non vidi nulla. Melissa era stanca di andare su e giù con l'altalena ed iniziammo a giocare ad un gioco inventato da noi anni prima in quello stesso luogo: La principessa Cristallina. Questo passatempo prevedeva che uno dei due partecipanti facesse il lupo, mentre l'altro interpretasse una donzella in pericolo. Era divertente , lo era sempre stato giocarci con mia sorella. Era bravissima a fingere di chiedere aiuto in una brutta situazione.
All'improvviso lo sentimmo di nuovo. Era lo stesso scricchiolio di prima. Melissa si preoccupò a tal punto da nascondersi dietro di me.
In quel momento presi una decisione: dovevamo scoprire chi o cosa fosse a spiarci.
Controllammo da per tutto. Guardammo in tutti i posti in cui ci si poteva nascondere. Anche se visti i nostri inutili sforzi non ci arrendemmo così facilmente.
Stavamo per raggiungere lo sfinimento, ma sentimmo lo stesso rumore per la terza volta. Quel suono ripetuto ci incoraggiava a continuare a cercare, fino a quando non lo avremmo trovato.
Ma prima di proseguire ci prendemmo una pausa. Andammo così' al piccolo ruscello, a pochi passi da noi. Ci sedemmo su una piccola panchina, creata da mio padre tempo prima, ed ammirammo la splendida acqua cristallina scorrere davanti ai nostri occhi.
Dopo qualche istante mi accorsi che dietro di me, guardando il riflesso dell'acqua si poteva appena intravedere una sagoma di un piccolo essere sconosciuto. Mi girai, dicendo a mia sorella di restare completamente immobile. Ma non appena mossi un muscolo quella creatura sparì.
Era incredibile, sembrava di sognare. Speravo di poter incontrare ancora una volta quell'esserino a dir poco magico.
Purtroppo dovevamo proseguire con le nostre ricerche. Ogni nostro piccolo tentativo mi sembrava inutile. Sembrava quasi che chiunque ci fosse là fuori sarebbe sempre stato un passo avanti a noi.
Quando decisi che dovevamo tornare a casa, sentii qualcosa che mi sfiorò la gamba. Guardai appena più in baso e vidi chi mi aveva appena toccata. Era una sorta di piccolo folletto, alto circa una ventina di centimetri. La sua pelle era grigiastra e il suo viso era coperto per la maggior parte da un enorme naso a patata. Aveva degli occhi simili ai nostri, dal color arancione acceso. Le sue piccole orecchie all'insù erano appuntite ed indossava degli abiti trasandati con dei buchi qua e là.
In mano teneva in braccialetto di perline lilla e rosa. Quel braccialetto apparteneva a Melissa. Era il suo preferito. Lo conservava come ricordo di una vacanza al mare e ci era molto legata.
Dalle sottili labbra del piccolo elfo uscirono delle parole pronunciate con voce acuta: "Buondì. Appartiene per caso a voi questo magnifico braccialetto, tesorini?".
Rimanemmo in silenzio per qualche istante prima di dire che ciò che teneva in mano era di nostra appartenenza. Dopo di che il folletto ci chiese di seguirlo mostrandoci così una cosa inaspettata. Ci fece vedere un passaggio che portava dal suo al nostro mondo. Per passare attraverso a questo spazio temporale occorreva semplicemente immergersi nel ruscello. Così facendo si sarebbe stati risucchiati in un vortice d'acqua e ci avrebbe portate nel suo mondo. Ci spiegò di farlo solo in caso di estremo pericolo e di mantenere il segreto.
Diventammo sempre più amiche del folletto con l'avanzare dei giorni.
Passarono i mesi e poi gli anni. Bernard, il folletto, ad un certo punto smise di venire a trovarci. Eravamo preoccupate per lui. Volevamo sapere solamente come stava.
Purtroppo una domenica mattina trovammo un bigliettino simile ad una pergamena legato alla corda dell'altalena. Questo portava la notizia di un terribile fatto: Bernard si era ammalato ed era venuto a mancare di una malattia sconosciuta al suo popolo.
Piovve per qualche giorno. Non avevamo la possibilità di andare nel bosco. Non avevamo la possibilità di poter rivivere con la nostra immaginazione quei momenti passati a ridere con il nostro fedele amico Bernard. Sarebbe stato atroce per me e Melissa dover resistere per tutta la vita ad una perdita così difficile. Ma non potevo sfogarmi con nessuno che potesse veramente capirmi. Perché una promessa ad un amico rimane per sempre una promessa. Anche se lui non c'è più.
Quell'incontro ha aiutato me e la mia sorellina l'importanza di renderci conto che tutto quello che ci circonda prima o poi ha una fine, che lo vogliamo o no. E' per questo che bisogna imparare a vivere e a concentrarsi sui momenti che viviamo nel presente. Perché pensare a ciò che è successo o a ciò che accadrà non ci darà una mano.
Questo magnifico incontro non lo dimenticherò mai.
CLASSI TERZE
1°PREMIO
Anais Ducret
Mio padre era partito per la Gran Bretagna una mattina di giugno senza dirci nulla. Quel giorno trovammo soltanto una lettera sul tavolo da cucina con sopra scritte due piccole ma profonde frasi: "Non so se tornerò, ma se tornerò sarà estate". Mio padre faceva il militare e in quel periodo era in corso la seconda guerra mondiale. Mia madre scoppiò in lacrime quando la lesse. Negli anni che seguirono non ci arrivò nemmeno una lettera o qualche segno di vita di papà.
La mamma aveva perso le speranze che papà potesse tornare vivo. Mia sorella non ci pensava nemmeno. Ero rimasto solo a tenere in vita la speranza di poterlo rincontrare. Pensavo a lui sempre ed ogni estate passavo le mie giornate in un campo di papaveri ad aspettare il suo ritorno. Mi sdraiavo sotto l'ombra di un albero. Le foglie che si muovevano col vento mi aiutavano ad immaginare possibili incontri con mio padre: mi immagino di vedere in lontananza centinaia di uomini, tutti vestiti da soldati. Ed ecco, tra le facce stanche ne appariva una sorridente: quella di mio padre.
I giorni di pioggia non facevo eccezioni. Correvo al campo, mi sdraiavo sotto all'albero e me ne stavo li fermo mentre la mia testa viaggiava.
Passarono gli anni. Una mattina di luglio feci la stessa cosa: presi il mio zaino, andai al campo di papaveri e mi sdraiai sotto l'albero. I fiori sembravano tante piccole macchi rosse che si muovevano con l'arrivo del vento. Sentii in lontananza dei passi, non potevano essere di contadini o buoi che passavano per di li con l'intento di andare verso le proprie abitazioni. No, doveva essere un uomo solo. Mi voltai di scatto e vidi in lontananza una figura alta, con una divisa da soldato. Mi alzai e lo scrutai meglio. Zoppicava e ad ogni passo gemeva dal dolore che gli provocava quel movimento. Si avvicinò sempre di più. Aveva il viso sporco e stanco ma nonostante ciò sul suo volto era scavato un sorriso. Quel sorriso era più luminoso del sole, era un sorriso stanco e affaticato. Era un sorriso di chi aveva combattuto fino alla fine ed aveva vinto. Era un sorriso che portava il nome di tutti quelli che erano morti per il bene di altri. Quello era il sorriso di mio padre.
Gli corsi in contro. Corsi più veloce che mai. Nell'aria si udivano soltanto i miei passi che acceleravano sempre di più quando la pendenza scendeva.
Gli arrivai di fronte. Mio padre teneva il braccio destro dietro la schiena e con il sinistro si reggeva ad un bastone di legno che lo aiutava a camminare meglio.
Mi riconobbe subito ,anche se l'ultima volta che mi aveva visto avevo dieci anni, e porse in avanti il braccio sinistro come per farmi capire che voleva abbracciarmi.
Mi lanciai verso di lui, l'ultima volta che avevo abbracciato mio padre gli arrivavo al gomito, ora la mia testa superava appena il suo orecchio. Lo strinsi talmente forse che gli tolsi il respiro. Senti l'odore della polvere da sparo che gli ricopriva i capelli. La sua divisa era bruciata e rovinata.
Quando il nostro abbraccio si sciolse, ci guardammo negli occhi. Vidi uscire dai suoi occhi lacrime che bagnavano le guance sporche. Mi guardò e sorrise, anche se continuavano a scenderli piccole gocce da quei suoi occhi scuri. Dopo qualche istante mi mostrò il braccio destro che aveva sempre tenuto dietro alla schiena. Dove prima c'era il suo braccio ora si era formato un vuoto. La manica di quella divisa penzolava e in fondo dove di solito ci sono i polsini c'era un nodo. Rimasi immobile ed il mio sorriso si spense come quello di mio padre.
Il suo viso fu bagnato da tutte le lacrime che gli scendevano dagli occhi. Quelle lacrime avevano un peso enorme. Dentro quelle lacrime c'era l'orrore della guerra, c'era lo sguardo di chi aveva visto dei piccoli proiettili portare via vite. Dentro quelle lacrime c'era il peso di non essere stato un padre presente, di aver visto sangue sul campo di battaglia piuttosto che vedere i propri figli crescere. Quelle lacrime potevano sembrare normalissime goccioline che scendevano sopra il viso di un uomo stanco, ma in realtà erano cascate di pensieri negativi, rimpianti e dolori che mio padre aveva passato per cinque lunghissimi anni. Questa volta immaginai il vuoto nel suo cuore, doveva essere come la manica che avvolgeva ciò che restava del suo braccio, non si sarebbe mai più colmato.
Provai a parlargli, ma dalla mia bocca uscirono solo le parole " Mi sei mancato", ed anche i miei occhi si bagnarono.
Ci sedemmo all'ombra dell'albero sotto il quale mi ero sdraiato tutti i giorni d'estate per cinque anni. Mi padre fissò il sole tramontare ed io feci lo stesso. Anche se lo avevo visto tante volte mi accorsi soltanto in quel momento di quanto fosse bello e di quanto anche soltanto un piccolo istante a contatto con esso possa riscaldarti il cuore.
2°PREMIO
Tripodi Margherita
Francesca amava le crostate ai lamponi.
Le ricordavano quelle che la nonna le faceva quando, nel fine settimana, la ragazza andava a trovarla a casa sua. La nonna abitava da sola in una casetta in mezzo al bosco, a venti minuti a piedi al villaggio. C'era una sola casa oltre alla sua; si trovava facilmente, procedendo per un centinaio di metri nel bosco. Il figlio, ovvero il papà di Francesca, dopo che il nonno venne a mancare, le propose molte volte di andare ad abitare con loro nella città vicina, dove la famiglia aveva un grazioso appartamento in centro, ma l'anziana signora aveva sempre rifiutato. Lei amava la sua casetta, dove aveva vissuto tanto tempo con il marito e dove aveva cresciuto i suoi tre figli.
Per Francesca quei ricordi erano lontani. Aveva ormai 20 anni e la nonna era mancata qualche mese prima. La nonna le aveva lasciato in eredità la sua casetta, e il suo libro di ricette. Nessuno in famiglia si era stupito; era ben noto che la nonna avesse un amore per Francesca che era molto più grande di quello per qualsiasi altro membro.
Però Francesca non ci badava in quel momento. Era sommersa dal suo dolore, le sembrava di affogare, in un mare scuro e denso come petrolio che non le lasciava muovere neanche la punta delle dita. Sua nonna non era solo una nonna per lei. Era la sua mamma, era la sua migliore amica, era la sua insegnante di vita; era la luce della sua vita. Ed ora quella luce si era spenta, come la vita dentro la nonna.
Francesca, sotto consiglio della famiglia, vendette la casa che le aveva lasciato la nonna. Con il ricavato, però, non pagò la retta universitaria come voleva il papà; lei non la voleva studiare medicina. Anzi, non voleva proprio andare all'università. Questo, come prevedibile, portò a un litigio. Ma non era un litigio normale, uno di quelli che si risolvono da soli; Francesca lasciò la città e andò a vivere da un'amica che abitava a due ore di macchina da lì.
Francesca arrivò a casa di Elena, che la aiutò a sistemare le sue cose nella stanza degli ospiti mentre ascoltavano i Green Day alla radio. Elena cantava in un inglese tutto suo, e faceva ridere Francesca, che per gli ultimi giorni non aveva fatto altro che piangere.
Francesca, ridendo, parlò mentre sistemava un paio di magliette nell'armadio.
"Potrei darti lezioni di inglese, Ele. Sembra che tu stia cantando in arabo."
Elena cercò di sembrare offesa, mentre a malapena tratteneva le risate.
"Non ti permettere! La mia versione di American Idiot è molto più bella dell'originale:"
Francesca scosse la testa mentre Elena rideva, sedendosi sul letto.
"Ho comprato una pasticceria, sai. Quella in centro città, che stava per chiudere. Credo sarà bello vendere le torte con la ricetta di mia nonna, in un posto che ho comprato con il ricavato della vendita della sua casa. Ho già preparato tutto da un po', domani apro."
Elena sospirò, cingendo la vita dell'amica con un braccio.
"Avrei sperato di poterti avere tutta per me tutti i gironi, ma hai ragione," ridacchiò ", e poi le mie ferie non dureranno ancora per molto. Devo tornare al lavoro tra tre giorni."
Francesca annuì, mentre abbracciava l'amica. Domani sarebbe stato l'inizio di tutto, anche se lei ancora non lo sapeva.
Francesca mise sotto il vetro del bancone le torte più belle di quel giorno, e, ovviamente, nel mezzo posizionò la crostata ai lamponi.
Quel giorno, arrivarono molti clienti, tutti molti gentili, che, letteralmente, svuotarono l'intero negozio. Rimaneva solo una fetta di crostata ai lamponi, che Francesca stava per mettere via, dato che era quasi arrivata l'ora di chiudere, quando una ragazzo entrò nel negozio. Era molto diverso da tutte le persone che erano entrate. Erano stati per la maggior parte anziani con i nipotini, o adulti che andavano al lavoro. Lui, invece, era un ragazzo sulla ventina, alto e magro con capelli corvini che risplendevano sotto la luce fioca dei led posizionati sul soffitto, aveva gli occhi azzurro ghiaccio, la pelle color del latte e una manciata di lentiggini spruzzate sul naso e sulle guance. Non sembrava una persona carina e cordiale come tutti gli altri clienti della giornata.
Eppure, si avvicinò con un sorriso gentile, e, con una voce dolce come il miele, chiese:
"Quanto costa quella fetta di crostata?"
Francesca si schiarì la gola, cercando di capire da dove arrivava quel suo improvviso disagio. Le sembrava di conoscere quel ragazzo, ma era impossibile. Non era mai stata in quella città fino ad ora, se non per organizzare i preparativi per l'apertura. Quando si accorse che il ragazzo stesse aspettando una sua risposta, forzò un sorriso.
"Due euro. La vuoi mangiare qua o portarla vai?"
Francesca dire, mentre appoggiava accuratamente la fetta di crostata in un foglio di giornale, preparando la fetta per essere portata via senza neanche accorgersene. Nessuno si era fermato a mangiare il dolce appena acquistato nel negozio, dato che c'era solo un piccolo tavolino con una sedia sbilenca dove sedersi per gustare la ghiottoneria scelta.
Eppure, il ragazzo, dopo aver pagato, andò a sedersi sulla sediolina e iniziò a mangiare. Divorò la fetta di crostata in tempo record, prima di guardare Francesca con un gran, dolce sorriso.
"Era deliziosa! Il gusto era identico a quello che faceva la mia anziana vicina. Sai, quando ero piccolo i miei non erano molto spesso a casa, quindi andavo da questa signora per farle compagnia. La famiglia viveva in città, quindi non potevano andare a trovarla spesso. Le faceva piacere la mia compagnia, e al mio palato facevano sicuramente piacere le crostate che mi preparava." Poi, il suo sorriso si rabbuiò un poco. "è mancata qualche mese fa." disse piano, quasi in un bisbiglio.
Francesca stava per dire qualcosa come 'mi dispiace', o 'ti piace davvero parlare?, quando realizzò un piccolo particolare. La nonna aveva una ricetta particolare per la sua torta di lamponi, diversa da tutte le altre. Francesca, per curiosità, l'aveva cercata su internet, aveva chiesto alle signore che abitavano nel suo palazzo, ,ma a quanto pare, nessuno la preparava come la nonna.
Francesca, con voce tremante, pronunciò due semplici parole. "Annamaria Fiordaliso." Il suo nome e cognome. Nient'altro.
Il ragazzo spalancò gli occhi, guardando Francesca come se fosse un'aliena. "Come fai a sapere il suo nome?! Chi sei?! Aspetta Assomigli molto alla ragazza nelle foto a casa di Annamaria…"
Francesca non riuscì a contenere le lacrime, mentre ridacchiava
"E tu sei Andrea, il figlio dei vicini della nonna. Mi ricordo di te. Giocavamo sempre insieme d'estate."
Francesca camminò fuori da dietro il bancone, abbracciando Andrea, mentre entrambi scoppiavano in un pianto che conteneva un misto di sollievo nel rincontrare una faccia conosciuta, e la mancanza dell'anziana signora che si faceva sentire più del solito.
Chi l'avrebbe detto? Un litigio aveva fatto trasferire lì Francesca, e ora il caso la faceva rincontrare con il ragazzo che negli ultimi anni aveva portato gioia nella vita della nonna, quando era da sola. O forse non era un caso. Forse c'era lo zampino della nonna.
Tutto grazie alla crostata di lamponi della nonna, che Francesca mangiava quando nei weekend, da piccola, andava a trovarla nella sua casetta nel bosco.
3°PREMIO
Postiaux Sophie
Non ero una persona che rimaneva colpita dagli eventi della vita, ma questa volta mi è rimasto impresso un incontro molto strano che ho fatto, così ho deciso di raccontarvelo.
Era una domenica pomeriggio piovosa, ero nel letto, come al solito, e stavo leggendo un nuovo libro. Era un romanzo rosa, il mio genere letterario preferito, l'avevo iniziato quella stessa mattina. Mi stavo immaginando di vivere quella storia, romantica e accattivante allo stesso tempo, quando un rumore strano attirò la mia attenzione, proveniva dall'armadio, era un ticchettio, come quelli dei tasti di un computer. Inizialmente lo ignorai, ma più cercavo di non ascoltarlo, più sembrava chiamarmi. Così mi abbandonai alla curiosità e andai ad aprire l'armadio, nessuno ci avrebbe mai creduto, lì dentro rannicchiato in un angolo c'era un piccolo animaletto. Era lilla e veramente piccolo, come il palmo di una mano, ecco da dove proveniva il ticchettio... Lo osservai per un tempo indeterminato, quando allargò le braccia, inizialmente pensai che si stava stiracchiando quando in realtà si aggrappò alla mia gamba, decisi di prenderlo in braccio, notai che era molto caldo, tornai a leggere. Era ormai sera inoltrata, quando mia madre bussò alla porta per chiedermi se volevo la cena, le risposi come rispondo sempre: " no grazie, non ho fame" e lei mi lasciò in pace... In realtà non era vero che non avevo fame, semplicemente odio mangiare. Il mostriciattolo lilla si svegliò dal suo sonno e mi guardò con degli occhi profondi, e stranamente mi decisi ad andare a mangiare... Quando rientrai in camera lo trovai appoggiato alla finestra, con lo sguardo perso, probabilmente, nei suoi pensieri. Stavo iniziando a chiedermi cosa fosse, perché assomigliava tantissimo a Stitch, ma era impossibile fosse lui, perché gli extraterrestri non esistono! Giusto?
Passò una settimana e la copia di Stitch si era stabilita nel mio armadio, nel cassetto dei pigiami, più precisamente. Gli piaceva particolarmente un pigiama a unicorno.
Un giorno presi coraggio e gli parlai, gli dissi il mio nome e per un attimo lui mi guardò stranito, ma poi con mia sorpresa ricambiò e mi rispose che si chiamava Azret. Io non credo nelle storie di fantascienza, ma mi sembrava di viverne una. Da quel giorno tutte le volte che tornavo a casa gli facevo una sola domanda e lui mi rispondeva, per poi tornare nel cassetto dei pigiami. Mi piaceva il suo modo di parlare, avrei voluto parlargli di più. Finché un giorno presi coraggio e gli chiesi perché fosse sulla Terra. Mi raccontò tutta la sua storia e ne rimasi affascinata, Azret era un piccolo alieno in missione, il suo compito era quello di salvare l'umanità e la Terra dall'imminente arrivo di una luna di Giove. Gli chiesi se per favore poteva raccontarmi di più, ma mi rispose che potevo porgli una sola domanda per giorno. Così aspettai con ansia l'arrivo del giorno dopo. Passammo tutto il pomeriggio a parlare del suo pianeta di provenienza, mi raccontò storie incredibili, ma come il giorno precedente mi era consentita una sola domanda. Più i giorni passavano più si avvicinava la data dell'arrivo della luna di Giove, mi ero davvero affezionata a quel piccoletto.
Purtroppo la data arrivò, erano passati solo due mesi dal suo arrivo qui, mi mancherà.
Azret uscì dalla mia finestra e con un salto atterrò sul tetto della macchina di papà, che era parcheggiata nel vialetto, ma stranamente non fece alcun rumore. Mi salutò emettendo un ticchettio dolce e con un altro balzo sparì dalla mia vista. Era passata una settimana e mezza dalla sua partenza, e mi mancava tantissimo. So che doveva partire comunque, ma io speravo restasse di più... Ormai era passato un mese, mi mancava sempre meno, quando sempre mentre leggevo, sentii di nuovo quel ticchettio dolce, lo stesso che Azret mi aveva rivolto prima di andarsene... Mi girai di scatto, forse troppo velocemente perché caddi, avevo il sorriso sul volto, quando lo vidi. Era steso sul davanzale della mia finestra, tutto macchiato di sangue viola, aveva un'aspetto orribile. Aprii la finestra, ero nel panico più totale, Azret mi aprì le braccia e io lo alzai e lo portai immediatamente in bagno per pulirlo e in seguito medicarlo. Notai subito un taglio enorme sulla sua schiena e appena lo sfiorai Azret urlò, fortunatamente i miei genitori non erano a casa. Presi in fretta le bende e lo fasciai, poi presi una mia maglietta di quando avevo 2 anni e gliela misi, cosicché la fasciatura non si disfasse. Passai una notte orribile e il giorno dopo non andai a scuola per stare con il mio piccolo amico. Era ormai passata una settimana, ma il taglio sulla sua schiena non mostrava alcun segno di guarigione. Tutti i giorni quando tornavo da scuola gli cambiavo la bendatura, in modo tale che non fosse troppo sporca, ma più passavano i giorni, più la "luce" che Azret emanava, diminuiva. Passarono i mesi e la situazione era sempre uguale, non migliorava e neanche peggiorava, ma il mio piccolo amico diventava sempre più freddo. Era il 25 novembre 2040 quando, purtroppo, la sua anima lasciò il suo corpo, che sparì poco dopo. Pensavo di seppellirlo in giardino, come ho già detto il suo corpo è sparito pochi secondi dopo il suo decesso.
Solo in quel momento mi ricordai che in una delle sue storie Azret mi aveva detto di avere un centinaio di anni, circa 900, quindi mi costrinsi a pensare che fosse morto per la vecchiaia, anche se una parte di me credeva fosse successo qualcosa in quel mese dove non l'avevo più visto. Ma purtroppo non lo scoprirò mai...
Sono passati ormai 10 anni da quell'incontro stupendo, e sento che Azret è sempre con me, anche se non è presente con il corpo, percepisco il suo spirito vegliare su di me.
Da quella domenica pomeriggio e dopo tutti i suoi racconti il mio modo di vedere il mondo cambiò completamente.